MUSEO DELLA MEMORIA  di Fausto Catelli

 

Via co' di sopra, 2

Gramignazzo di Sissa Trecasali 

 

Prenotazioni visite telefonando al n. 3494261463 - Sig. Fausto Catelli

 

Il suo ideatore e custode, ha raccolto testimonianze e cimeli di Internati razziali e di deportati (civili e militari) nei Campi di Concentramento,grazie ad  un incontro effettuato nel corso di uno dei suoi tanti viaggi (altro suo hobby) in Israele, quando, per caso incontra una persona che aveva tatuato un numero sull’avambraccio. Ciò ha stimolato la sua curiosità e si è appassionalo alla ricerca storica che con gli anni si è ampliata abbracciando e facendo memoria delle storie di militari e civili negli anni delle due guerre mondiali.  guarda il filmato

16 febbraio 2020 cerimonia di consegna targhe ai Giusti del Comune di Sissa Trecasali

Sig. Poletti Esterina, Sig. Pizzi Rolando e Sig. Alfieri Mario Severino, che dopo l'8 settembre 1943 si adoperarono per favorire la fuga degli ebrei internati 

IN RICORDO DI ERNA FINCI VITERBI

Per onorare la memoria di Erna Finci Viterbi, sostenitrice, assieme al marito Andrew, della Associazione la Fornace che ha l'obiettivo di ristrutturare gli edifici della Fornace PIZZI per riconvertirli ad uso pubblico, pubblichiamo un articolo che ne ripercorre la fuga e poi la salvezza negli anni della Shoah. Nell'articolo che segue, Liliana Picciotto descrive la vicenda di Erna Finci, ancora bambina, e della sua famiglia, fuggita da Sarajevo nel 1941, internata a Gramignazzo in provincia di Parma e da là, nel 1944, passata clandestinamente in Svizzera. Le immagini sono state gentilmente concesse da Andrew Viterbi.

   

I Finci. Una famiglia ebraica in fuga da Sarajevo a Parma al Monte Bisbino (1941-1944)*

 

di Liliana Picciotto 

In ricordo di Erna Finci Viterbi (20 gennaio 1934 - 17 febbraio 2015). 

Nei giorni che precedettero il Natale del 1941, davanti agli occhi stupiti degli abitanti della frazione di Gramignazzo di Sissa - centro agricolo della Bassa Parmense appoggiato alla foce del fiume Taro che conta poche centinaia di abitanti -, si parò una scena inusuale.

All'entrata della locanda  del paese, gremita di uomini che, appesi i tabarri al chiodo, fumavano e giocavano animatamente a carte,  dalla corriera in arrivo da Parma, scese un folto gruppo di civili carichi di valigie e bambini. 

Con  i loro abiti da città, volgevano intorno uno sguardo disorientato  alla ricerca di qualcuno che li accogliesse o gli dicesse dove andare, dove dormire, dove appoggiare le  cose.

Erano la famiglia ebraica di Kalmi Musafija (1873) e la moglie Rifka Montiljo (1874), con i numerosi  figli, figlie e generi: Jacob (1895), Regina (1900), Lenka (1904), Haim (1905). Regina era con il marito Alberto  Finzi (1894) e i due ragazzi Kalmi (1927) e Moise 1923); Lenka  era con il marito Josef Finci (1895) e due bambini, Asher (1929) e Erna (1934).

In tutto erano 12 persone. Altre 8 persone della grande famiglia  si erano fermate a Sissa, a pochi chilometri di distanza.

 

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IMI

Giovannino Guareschi, IMI 6865

 

Giovannino Guareschi, il papà di Don Camillo e Peppone, fu uno dei 600mila internati militari italiani. Per i tedeschi era il numero di matricola 6865. Catturato il 9 settembre 1943 ad Alessandria, liberato il 16 aprile dagli alleati, tornò in Italia quasi due anni dopo, il 4 settembre 1945. Era tenente di complemento di Artiglieria pesante campale. Durante il periodo di prigionia, trascorso tra i lager di Bremerworde, Sandbostel, Czestochowa, Benjaminovo e Wietzendorf, mise a disposizione dei compagni di sventura il suo talento di scrittore,  fine umorista e conoscitore dell’animo umano. Girando per le baracche, con le sue storielle allegre e amare, poetiche, divertenti, ironiche, graffianti, si dava un gran daffare per tenere alto il morale della “truppa”, strappandola per qualche minuto ai patimenti e ai morsi della fame. Storielle che la censura nazista, non afferrandone i significati reconditi, giudicava innocue ma che erano, in molti casi, dure reprimende contro chi aveva trascinato il mondo in guerra. Durante la prigionia - tra note, appunti, scritti, disegni - mise insieme, come disse egli stesso, tanto materiale “da scrivere un volume da duemila pagine”. “Cotanta opera”, per sua stessa scelta, non fu però mai pubblicata, in compenso vennero alla luce tre libri di dimensioni più modeste, ma con dentro tutto quello che occorreva dire sull’esperienza della deportazione: Diario clandestino (1949), La favola di Natale (1945) e Ritorno alla base (quest’ultimo uscito postumo nel 1989, a cura dei figli Alberto e Carlotta). In essi, c’è l’Abc del Guareschi-prigioniero, non una parola di più, non una di meno. Il Diario clandestino, che è frutto di un “assemblaggio” di testi letti pubblicamente nei lager  (e quindi approvato da tutti gli internati) è, al riguardo, molto significativo sin dall’introduzione, intitolata ISTRUZIONI PER L’USO. In queste prime pagine emerge un elemento che Giovannino considera fondamentale: la dignità e la forza d’animo con cui, nonostante la drammaticità della situazione, gli Imi affrontarono la lunga stagione della prigionia. Guareschi, da questa triste esperienza, riuscì a tratte qualcosa di buono: imparò a conoscere meglio se stesso.

“Io, insomma, come milioni e milioni di personaggi come me migliori di me e peggiori di me, mi trovai invischiato in questa guerra in qualità di italiano alleato dei tedeschi, all’inizio, e in qualità di italiano prigioniero dei tedeschi alla fine. Gli anglo-americani nel 1943 mi bombardarono la casa, e nel 1945 mi vennero a liberare dalla prigionia e mi regalarono del latte condensato e della minestra in scatola. Per quello che mi riguarda, la storia è tutta qui. Una banalissima storia nella quale io ho avuto il peso di un guscio di nocciola nell’oceano in tempesta, e dalla quale io esco senza nastrini e senza medaglie ma vittorioso perché, nonostante tutto e tutti, io sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno. Anzi, sono riuscito a ritrovare un  prezioso amico: me stesso…. Per venire alla mia storia, dirò che io assieme a un sacco d’altri ufficiali come me, mi ritrovai un giorno del settembre 1943 in un campo di concentramento in Polonia, poi cambiai altri campi, ma dappertutto la faccenda era la stessa dei campi di prigionia…. L’unica  cosa interessante, ai fini della nostra storia, è che io, anche in prigionia conservai la mia testardaggine di emiliano della Bassa: e così strinsi i denti e dissi: Non muoio neanche se mi ammazzano!. E non morii. Probabilmente non morii perché non mi ammazzarono: il fatto è che non morii. Rimasi vivo anche nella parte interna e continuai a lavorare….  E così trascorsi buona parte del mio tempo passando da baracca a baracca dove leggevo la roba appunto di cui questo libriccino vi dà un campionario… Non abbiamo vissuto come i bruti. Non ci siamo rinchiusi nel nostro egoismo. La fame la sporcizia, il freddo, le malattie, la disperata nostalgia delle nostre mamme e dei nostri figli, il cupo dolore per l’infelicità della nostra terra non ci hanno sconfitti. Non abbiamo dimenticato mai di essere uomini civili, uomini con un passato e un avvenire…La Patria si affacciava ogni tanto alla siepe di filo spinato, ed era vestita da generale: ma sempre veniva a dirci le solite cose: che il dovere e l'onore e la verità e il giusto erano non nella volontaria prigionia, ma in Italia dove petti di italiani aspettavano le scariche dei nostri fucili. Fummo peggio che abbandonati, ma questo non bastò a renderci dei bruti: con niente ricostruimmo la nostra civiltà. Sorsero i giornali parlati, le conferenze, la chiesa, l'università, il teatro, i concerti, le mostre d'arte, lo sport, l'artigianato, le assemblee regionali, i servizi, la borsa, gli annunci economici, la biblioteca, il centro radio, il commercio, l'industria. Ognuno si trovò improvvisamente nudo: tutto fu lasciato fuori del reticolato: la fama e il grado, bene o male guadagnati. E ognuno si ritrovò soltanto con le cose che aveva dentro. Con la sua effettiva ricchezza o con la sua effettiva povertà. E ognuno diede quello che aveva dentro e che poteva dare, e così nacque un mondo dove ognuno era stimato per quello che valeva e dove ognuno contava per uno. Niente mutò nel Lager: sempre la stessa sabbia, sempre le stesse baracche, sempre la stessa miseria. Ma c'era tutto quello di cui abbisogna un uomo civile per vivere con civiltà in un mondo civile”.

L’esperienza nei lager segnò profondamente la vita di Guareschi. I quasi due anni (19 mesi da prigioniero sotto i tedeschi e 5 da “libero”, prima del rimpatrio, sotto gli americani) trascorsi in Polonia e Germania gli rimasero attaccati come un marchio inciso sulla pelle. Giovannino, anche dopo la liberazione, si sentì eternamente legato ai compagni di prigionia. Con la pubblicazione dei suoi scritti dal lager volle, in qualche modo, dare voce ad essi, strappandoli dal colpevole dimenticatoio in cui finirono, sia durante la prigionia che una volta tornati a casa. L’internamento fu disperazione, fame, dolore nel corpo e nel cuore. Ecco, con la solita ironia, cosa scrive a proposito della fame (da Diario clandestino). 

NOI POVERI (20 gennaio 1945): “Tutti attorno al padre cappellano T. dei Cappuccini, il quale parla della zuppa che il suo convento dava ogni giorno ai mendicanti e – a richiesta dei presenti – precisa gli ingredienti usati nella confezione dell’intruglio e la loro proporzione: <<Cavoli 300 grammi, grasso di cavallo 30 grammi…>>. Così siamo ridotti: ci si accontenta di poco: della descrizione della minestra dei poveri”.

L’uomo, secondo Guareschi, quando è ha posto con la propria coscienza, non ha paura di nulla e nulla ha da temere. Può essere piegato dalla violenza e dalle privazioni, ma nel suo animo resterà sempre in piedi e sempre libero. Anche il grande Reich tedesco, l’aguzzino che infligge tante sofferenze, è impotente di fronte ad esso. E’ molto chiaro, al riguardo, il brano SIGNORA GERMANIA (dalla conversazione “Baracca 18”, lager di Beniaminovo, 1944; Diario clandestino): “Signora Germania, tu mi hai messo fra i reticolati e fai la guardia perché io non esca. È inutile signora Germania: io non esco, ma entra chi vuole. Entrano i miei affetti, entrano, i miei ricordi. E questo è niente ancora, signora Germania: perché entra anche il buon Dio e mi insegna tutte le cose proibite dai tuoi regolamenti. Signora Germania, tu frughi nel mio sacco e rovisti fra i trucioli del mio pagliericcio. È inutile, signora Germania: tu non puoi trovare niente, e invece lì sono nascosti documenti d'importanza essenziale. La pianta della mia casa, mille immagini del mio passato, il progetto del mio avvenire. E questo è ancora niente, signora Germania. Perché c'è anche una grande carta topografica al 25.000 nella quale è segnato, con estrema precisione, il punto in cui potrò ritrovare la fede nella giustizia divina. Signora Germania, tu ti inquieti con me, ma è inutile. Perché il giorno in cui, presa dall'ira farai baccano con qualcuna delle tue mille macchine e mi distenderai sulla terra, vedrai che dal mio corpo immobile si alzerà un altro me stesso, più bello del primo. E non potrai mettergli un piastrino al collo perché volerà via, oltre il reticolato, e chi s'è visto s’è visto. L'uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce n'è un altro e lo comanda soltanto il Padre Eterno. E questa è la fregatura per te, signora Germania”.  

La dignità e lo spirito “resistente” degli internati si manifestano, in particolare, quando essi, rinunciando alle promesse e alle lusinghe di una vita migliore, rispondono “No” agli appelli dei nazisti o dei fascisti a sposare la causa delle forze dell’Asse. L’episodio intitolato STORIE DI WIETZENDORF (7 gennaio 1945, Diario Clandestino), si riferisce ad una di queste circostanze: “Il <<capitano del lavoro>> convocò nella baracca del Teatro sessanta <<tecnici>> scelti a caso, e parlò dell’opportunità di collaborare col popolo tedesco  allo scopo di salvare l’Europa dal bolscevismo. Accennò all’immancabile vittoria finale del Grande Reich, fece comprendere che nuove armi formidabili erano già state apprestate, indi si disse pronto a prendere nota dei desiderata dei presenti.   Accingendosi alla compilazione della nota dei volontari, premise (perché i tecnici convocati erano sessanta, ma i presenti erano cinquecento): <<Noi abbiamo bisogno di gente che abbia realmente desiderio di lavorare per noi.  Chi non ha voglia di lavorare per noi può uscire>>. Allora tutti uscirono, e il capitano rimase solo a guardarsi in faccia con l’interprete. <<Razza di fannulloni!>>, borbottò rimettendosi in tasca la stilografica”.

Nonostante le indicibili sofferenze, la maggior parte degli Imi riuscì a scampare alla fame, alle malattie, alle violenze, e a tornare a casa. Come? Aguzzando l’ingegno (nei campi, come emerge anche nell’introduzione del Diario, sorsero traffici e iniziative di ogni tipo finalizzate alla “sopravvivenza”) e appellandosi alla forza d’animo che è  negli uomini. Guareschi, da questo punto di vista,  sottolinea  l’importanza di sognare ad occhi aperti, coltivando la speranza di riuscire un giorno a riabbracciare i propri cari. Il sogno tiene in vita, un uomo che può sognare è un uomo libero. 

IL SOGNO (“Bertoldo parlato”, Sandbostel, 1944; Diario clandestino): “A noi è concesso soltanto sognare. Sognare è la necessità più urgente perché la nostra vita è al di là del reticolato, e oltre il reticolato ci può portare solamente il sogno. Bisogna sognare: aggrapparsi alla realtà coi nostri sogni, per non dimenticarci d'esser vivi. Di queste inutili giornate fatte di grammi, di cicche o di miseria, la sola parte attiva, la sola parte vitale saranno i nostri sogni. Bisogna sognare: e, nel sogno, ritroveremo valori che avevamo dimenticato, scopriremo valori ignorati, ravviseremo gli errori del nostro passato e la fisionomia del nostro avvenire. Sediamoci fuori della baracca: proiettiamo le visioni del nostro desiderio sullo schermo del cielo libero e sogniamo (gli occhi bene aperti e la mente vigile) costruendo noi stessi la trama della vicenda immaginaria, soggettisti, registi, attori, operatori e spettatori del nostro sogno”.

Guareschi sognava e faceva sognare. Per sollevare il morale dei compagni girava di baracca in baracca a narrare le sue storie. E’ molto divertente (ma insieme amaro), questo racconto tratto da Ritorno alla base. LA FIDANZATA DI LUIGI: “Sono brani delle lettere che una ragazza scrive al suo fidanzato internato. Li riportiamo in ordine di data. 

Milano, 2 novembre 

Mio adorato Luigi, il signor tenente Antonio Merlecchi che era con te al Campo Y è rientrato con gli aderenti e mi ha portato tue notizie. Che gioia! Ma perché, in nome di Dio, non rientri anche tu? Perché non fai come lui? Aderisci, Luigi!... 

Milano, 3 dicembre 

Mio adorato Luigi, ho parlato di te con il tenente Merlecchi ed egli mi ha detto della tua triste vita e delle tue idee. Ma sei proprio sicuro di agire bene? Non sarebbe meglio che tu tornassi? Pensaci, Luigi!... 

Milano, 5 gennaio 

Mio adorato Luigi, io e Il signor Merlecchi abbiamo avuto modo di parlare ancora di te. E del tuo sacrificio e della tua fierezza. Comincio ad avere dei dubbi: che tu abbia ragione, Luigi?... 

Milano, 7 febbraio 

Mio adorato Luigi, io e Merlecchi abbiamo lungamente parlato di te e della tua indomita fierezza. Ero cieca, Luigi, ma ora comprendo la nobiltà del tuo fine. Bravo Luigi!... 

Milano, 8 marzo

Mio adorato Luigi, oggi con Antonio s'è parlato nuovamente di te e abbiamo riconosciuto la grandezza della tua forza d'animo. Ti ammiro, Luigi!...

Milano, 10 aprile 

Mio adorato Luigi, oggi io e Tonino ti abbiamo ricordato con inenarrabile commozione e con inesprimibile affetto. Oh, la rettitudine del tuo animo! O la bellezza della tua sofferenza! Anche Tonino è entusiasta di te (a proposito: il mese venturo io e Tonino ci sposiamo) tieni duro Luigi!”.

Chiudo, tornando ad un racconto più triste e struggente, che trovo bellissimo perché rende bene l’idea del dramma nel quale hanno vissuto gli internati e più in generale del dramma della guerra. Dietro ogni soldato c’è un uomo, che ha degli affetti, che ha delle persone che lo amano e lo aspettano a casa: una moglie, una fidanzata, dei figli, i genitori….. 

LA SPERANZA (25 gennaio 1945; Diario clandestino): “All’infermeria è morto di fame il capitano P. Diciotto mesi fa, pochi giorni prima d'esser catturato dai tedeschi in Francia, aveva comperato tre tavolette di cioccolata da portare ai suoi bambini. Le tre tavolette lo seguirono nella strada della deportazione e della fame, ed egli sempre le custodì gelosamente fra i poveri stracci del suo sacco, e ogni tanto le cavava fuori e le guardava sorridendo, e pensava ai suoi bambini. È morto di fame nell'infermeria, stringendo fra le mani le tre tavolette  di cioccolata intatte”.

Gli Imi devono molto a Guareschi. Rimasti per lungo tempo ai margini dell’interesse degli studiosi,  l’unico che ha tenuto accesa la fiammella della memoria è stato il grande giornalista-scrittore della Bassa. Lo ha fatto a suo modo: dicendo tutto quello che c’era da dire, con poesia e ironia.   

Mauro Cereda, giornalista, si è occupato del tema degli internati militari nel libro “Storie dai lager” (Edizioni Lavoro, 2004). Il volume raccoglie le voci di ventuno ex deportati, un’intervista allo storico (ed egli stesso ex Imi), Claudio Sommaruga, e due testimonianze "indirette": quella del segretario generale della Cisl, Savino Pezzotta, che in Germania perse il padre Giuseppe Francesco, e quella di Alberto e Carlotta Guareschi, i figli di Giovannino, a cui è dedicato anche un saggio, corredato da alcuni suoi disegni. 

 

fonte: http://www.deportati.it/archivio/imi_cereda.html