GIUSEPPE TONNA

GIUSEPPE TONNA tratto da Voci n. 7/2022

Gramignazzo di Sissa, 1920 - Brescia, 1979

Giuseppe Tonna: un insegnante, un filologo, un traduttore, uno scrittore di poesie di racconti di favole di romanzi, un vanto per la nostra comunità essendo un parmense di Gramignazzo di Sissa.

Bresciano di adozione ha insegnato al ginnasio del liceo classico “Arnaldo” dal 1959 sino alla morte e in precedenza era stato docente di lettere in varie località, tra cui al ginnasio di Casalmaggiore e per pochi mesi anche nella neonata scuola media di Sissa nell’anno scolastico 1949- 1950.

Me ne hanno dato conferma un amico a cui a Casalmaggiore ha acceso l’amore per i classici e Giorgio Polastri un sissese che lo ricorda come insegnante e come preside.

Il legame con il nostro territorio è stato rinsaldato dal matrimonio con Libera Pizzi “Bibi” figlia della signora Teresa Corbellini proprietaria di villa Simonetta di Torricella entrambe protagoniste del libro pubblicato postumo (1989) “L’ultimo paese”.

Il romanzo racconta un paese e una pagina di civiltà, quella contadina, che Tonna ha vissuto e ora vuole celebrare: la nostalgica descrizione del paesaggio padano, gli uomini, le donne, le tradizioni, i proverbi, i modi di dire di quel mondo che Tonna narra attingendolo alla memoria personale del suo paese natale. “L’ultimo paese” dunque non solo dal punto di vista spaziale ma soprattutto perché documenta “l’ultima stagione” di una civiltà secolare.

E per mantenere il collegamento con la lingua parlata dei contadini ecco apparire in tutti i libri di Tonna dei termini “dialettofoni” (lo sguretto…la tondina…il soghetto…) usati anche per rendere tangibili i proverbi (lassar la roba tri de dopo morto) e i modi di dire.

Si può parlare di contaminazione fra l’italiano e il nostro dialetto pur con tanti distinguo perché molti termini non sono “correttamente dialettali” come si può vedere anche nella conclusione di tante favole (ero là sotto la tavola che pestavo del péver e non m’hanno neppure offerto da béver) e che dire degli stranomi di molti personaggi dell’Ultimo paese? Nasalaria, il Macchiato, Ligabo, Paialonga, la Cremonesa…. riflettono un’abitudine diffusa nella Bassa, quella di identificare un personaggio con una caratteristica peculiare della sua persona.

Un canto per il mondo contadino è stato definito “Le bestie parlano”, ventun racconti pubblicati da Tonna stesso nel 1951. E poi “Crisalidi sul cammino”, “Favole padane”, “Uomini bestie e prodigi” e altri testi sempre legati al mondo contadino della sua infanzia. Di tutt’altro tono la produzione di Tonna che lo vede traduttore: dal greco “Opere di Euripide”, “Iliade” e “Odissea”, dal latino “Cronaca” (Cronica di Fra Salimbene de Adam) e “Baldus” del mantovano Teofilo Folengo.

Di queste importanti opere riferisco soltanto ciò che del suo lavoro di traduttore viene scritto nella sovracopertina di “Cronaca”: “le sue versioni affascinano per la libertà con cui inventa impasti linguistici nuovi, che fanno della traduzione stessa un’opera d’arte”. 

 

Nasce a Gramignazzo di Sissa il 28 maggio 1920 e muore a Brescia nel dicembre 1979. Figlio di un piccolo proprietario terriero, secondo di tre figli, Giuseppe studia a Parma nel collegio dei Salesiani, si diploma al liceo classico e si iscrive alla Facoltà di Lettere della Scuola Normale Superiore di Pisa dove si occupa dello studio delle materie umanistiche, prime fra tutte la letteratura latina e quella greca.

A causa della guerra, si trasferisce presso l’Ateneo di Bologna e consegue la Laurea con una tesi sulle Georgiche di Virgilio, di cui era grande appassionato.
Nel 1945, a soli 25 anni, sposa Libera Pizzi, da cui avrà i due figli Teresa e Carlo.

Dopo una lunga peregrinazione per le scuole di Parma, della Valle Camonica e del Cremonese, nel 1959 inizia a insegnare al Liceo "Arnaldo" di Brescia, dove rimane fino al 1979, anno della sua improvvisa morte. Insigne studioso e traduttore di Teofilo Folengo e Salimbene De Adam, è noto soprattutto per le traduzioni dell'Iliade e dell'Odissea realizzate per la collana "I grandi libri" della casa editrice Garzanti.

Collaboratore di "Aurea Parma", "Palatina", “Paragone” e "Caffè", della "Gazzetta di Parma" e dell "Eco di Brescia", Tonna entra nel circuito letterario di Parma e frequenta Bertolucci, Colombi Guidotti, Artoni e Cusatelli.

A Brescia, invece, stringe amicizia con l’editore Roberto Montagnoli e con il pittore Luciano Cottini. Amante della filologia e del mondo contadino, nelle sue opere è riuscito a conciliare alla perfezione questi due aspetti della sua vita apparentemente tanto distanti.

È autore di versi Crisalidi sul cammino (Fresching, 1941) e di opere in prosa: Le bestie parlano (Guanda, 1951) Al di qua della siepe (Il Raccoglitore, 1955), Uomini bestie prodigi (Grafo edizioni, 1976). Favole padane, I giorni della caccia (Claudio Lombardi editore) e il romanzo L'ultimo paese (Guanda, 1955) sono stati pubblicati postumi.

Le bestie parlano pubblicato a spese dell’autore è rimasto quasi dimenticato fino al ’99 quando la piccola casa editrice bresciana La Quadra ne fece un’edizione in mille copie, che subito andarono esaurite.

Nel 2001 uno di quei racconti, dal titolo «La bestia malata», è stato inserito nella prestigiosa antologia in tre volumi «Racconti italiani del Novecento», a cura di Enzo Siciliano. Nella nota che introduce il racconto, Enzo Siciliano sottolinea l’appartenenza di Tonna alla categoria, rara, dei «narratori animalisti»; ricorda il suo essere «padano»; annota l’uscita, oltre a «Le bestie parlano», di «Uomini Bestie Prodigi».

Siciliano si sofferma poi a commentare come il magnifico re-inventore del linguaggio del «Baldus» di Folengo e della «Cronaca» di Salimbene de Adam e il traduttore-divulgatore di «Iliade» e di «Odissea»  abbia usato per le sue narrazioni «una lingua a colori puri, tendenzialmente nominale, o tinteggiata con la terra d’ombra della memoria».

Il critico è esplicito quando afferma che ciò che riscatta queste prose dal rischio del bozzettismo è «la musica di fondo».

Tonna, dunque, sta conoscendo una nuova primavera editoriale, testimoniata dall’interesse che gli editori, specie di area padana, continuano a manifestare per i suoi testi e per le sue traduzioni.

Opere

Crisalidi sul cammino, Parma, 1941

Le bestie parlano: prose, ed. Guanda, Parma 1951

Al di qua della siepe, ed. Il Raccoglitore, Parma, 1955

Uomini, bestie, prodigi, ed. Grafo, Brescia, 1976

Favole padane, ed. Claudio Lombardi, Milano 1987

I giorni della caccia, Claudio Lombardi, Milano 1988

L'ultimo paese, Guanda, Parma 1995

Traduzioni

Il Baldo, di Teofilo Folengo, Feltrinelli, Milano 1958

La Cronaca, di Fra’ Salimbene de Adam, Garzanti, Milano 1964

Odissea, Omero, Garzanti, Milano 1968

Iliade, Omero, Garzanti, Milano 1973

La Massera da bé, di Galeazzo degli Orzi, ed. Grafo, Brescia 1978

Medea, Ippolito e Le Troiane di Euripide, Garzanti, Milano 1981


APPUNTI:  da Voci n. 7/2022

LA FIERA DI SISSA La Fiera di Sissa è sempre stata una grande fiera. L’ultima domenica di luglio. Incominciava il ciclo, quella di Borgonovo. Poi Roccabianca. Si contavano i giorni. Lunedì, martedì… Sono arrivati i pagliacci! E quanti tiri a segno! Giovedì… La torta, la pulizia nelle case. Ricordo che mi toccava di lavare perfino gli usci. Si stendevano sull’albio e giù, a fregare, con entusiasmo. L’attesa era fervida e inquieta. E poi, al mattino, la distesa scopata dell’aia, l’innaffiatura dell’acciottolato e i parenti… E le donne intorno alle bronze, con un volto di festa così aperto che mi pareva di vivere in un sogno. E poi venivano, al martedì, gli acquazzoni. I vasti acquazzoni fuggitivi, che divagavano pel cielo come una festa...

I TEMPORALI Come falchi balzano giù i temporali sulla nostra terra. Covano mansuete a lungo sulla collina, spumose e rotonde, le masse di nuvole e fa gioia vederle splendere, così gonfie e quiete e lontane. Una fiorita sulla siepe azzurra che cinge come un braccio la pianura padana. Poi eccole, oscure e bisciose, ad un tratto, ci sono sul capo...

Tratti da “Le bestie parlano” di G. Tonna

 

LA DOMENICA È bella la domenica, e l’aria è nuova come un’acqua fresca. Inteneriscono le macchie e le incrinature sulla facciata della casa, come su carne viva. Non si erano mai viste. E quel rabuffo, nel celeste degli olmi, così leggero che non pare di foglie e di rami. E quando di lontano si sente: - Tajo rosso! - gridato con tanta esultanza, le donne vengono sulla porta e dicono: - La prendo proprio un’anguria! - E si parlano di casa in casa, dimentiche e contente. Ci si siede sui ponti, la domenica, a ragionare di nulla, dentro gli abiti nuovi e carezzevoli; con un abbandono di stupore lungo tutte le membra. Pare impossibile: senza nulla da fare!...

Tratto da “Le bestie parlano” di G. Tonna

 

TORRICELLA Il Palazzo sorgeva in mezzo ai campi in principio del paese, ma staccato, maestoso. Non si confondeva con le altre case che si allineavano, ora addossandosi l’una all’altra, ora con un respiro di orti e di vigne tra di loro, lungo la strada che passava per Torricella. E viste così, dal di dietro o anche di fianco, pareva di sorprenderle nell’abito trasandato di tutti i giorni: i muri non avevano calce, erano nudi e indifesi nell’articolata successione dei mattoni. E intorno, mucchi quadri di fascine che rovinavano da un lato, pali drizzati contro la parete di una stalla, barchesse con il tetto traballante di lamiera, balle di paglia disfatte e abbandonate... Fu una scorsa, un giro di occhi: e Natalino ne ebbe, dentro tutto quel sole, un’impressione di disagio, di tristezza come, non sapeva neanche lui. Il Palazzo restava là, il giorno era grande e chiaro, si vedeva in fondo anche la torre di Sissa, prima delle colline...

Tratto da “L’ultimo paese” di G. Tonna 

 

CATECHISMO Dopo che la parrocchia era rimasta vacante, il Palazzo era diventato come il Prato della fiera: bambini su, bambini giù, bambini che correvano per le scale, che rovesciavano i vasi dei fiori in galleria e strappavano gli oleandri sull’Aia di cemento, un inferno, altro che canonica. E d’una sfacciataggine poi! Bim, bom, dentro e fuori dalla cucina, buttandosi addosso alla porta come fulmini: e dammi da bever, e un tocco di pane, e una branca di ciliegie! Non la finivano più, erano un pozzo senza fondo. La Sabina era a ca’ del diavol. Ma zitta, non apriva bocca. Guai al mondo contrastare la Signora nelle sue idee! S’era presa addosso una bella gatta da pelare. E che responsabilità, Dio Signore!…. ...E la Signora, qui a dannarsi l’anima con il catechismo! Arrivava a sera che non aveva più voce, disfatta. Era uno sciame, primi giorni. La Signora stava ancora a tavola che capitavano i diavoli. Allora andava fuori lei, in galleria, a mettere ordine. “Qui seduti sulla panca! E guai al primo che boffa”... ...E quando li vedeva con tutt’altre intenzioni - ci credereste? - restava delusa. Quasi quasi avrebbe avuto piacere che saltassero la siepe e si riempissero la camicia di ciliegie strappando rami nella furia e foglie, per poter conclamare: “Eh, non mi sono sbagliata, io! Ho la vista che cammina lontano. Con tutto quel suo catechismo, c’è ben poco da sperare. I ragazzi al dì d’ancò sono maliziosi, furbi. Sono svelti a una maniera che uno, dirlo, non c’è dubbio che creda”...

Tratto da “Le bestie parlano” di G. Tonna

 

VILLA SIMONETTA ...Pietro non era mai si può dire uscito dall’aia da solo. Era andato sì nei campi, sul carro, con la mamma Martina: ma aveva l’impressione che quei giri non fossero un andar fuori... ...Ma l’andar al Palazzo - la costruzione si levava alta, quadrata, con una selva di comignoli sul tetto: e la si vedeva da ogni parte, sbucando da qualsiasi folto di piante, come un severo ammonimento e un richiamo - l’andar a Palazzo era invece l’avventura, la libertà. Ogni giorno cambiava strada, inoltrandosi tra filari e siepi come dentro una boscaglia. Anche tra il frumento si perdeva, tanto si era fatto alto: e cresceva sempre più. Solo i prati si aprivano in improvvisi larghi, in radure senza fine dopo il primo sfalcio: ma avevano già l’erba che veniva su gremita e tenera sul vecchio taglio, come fosse con le radici dentro un pozzo. Per Natalino, invece, l’andare al Palazzo era un poco come mettersi in gabbia. Ma i primi giorni era anche per lui una Foto di Massimo Bolzoni scoperta: tutto là dentro assumeva proporzioni enormi, la corte con le case basse da una parte e dall’altra, dove si entrava attraverso un arco e si poteva uscire dall’altro arco di fronte; e qui una seconda corte, più somigliante a un’aia, con carri in mezzo e attrezzi agricoli, e porticati vasti e scuri ai lati e fienili…

Tratto da “L’ultimo paese” di G. Tonna 


2022: “Io, povero figlio di contadini…” rassegna dedicata a Giuseppe Tonna

A Sissa Trecasali venti appuntamenti da maggio a dicembre per celebrare il poeta, scrittore, favolista e traduttore. info


Favole Padane

 

Il Folletto

Una volta, d’estate, una donna stava seduta sull’aia a pezzare dei sacchi. Ed ecco sciogliersi per terra e correre via un bel gomitolo dal filo lungo. Non si ricordava di averlo comperato, al paese.

«Oh, guarda che bel gomitolo!»

Si alza, lo raccoglie, ritorna lenta lenta avvolgendone il filo. Le occorreva proprio per cucirsi una sottanella da mettersi, la domenica, per andare in chiesa. E non stette lì a pensarci su due volte: forse l'aveva comprato e se n’era scordata. Tanto è pronta in noi l’inclinazione a persuaderci e a mettere il cuore in pace, quando troviamo qualcosa che ci fa comodo!

Così, con la sottana bella, andò a messa. Aveva appena varcata la soglia (e si avviava, accomodandosi il velo in testa, a cercare l'acqua benedetta con una mano nella pila), che si sentì intorno alla vita come un allentarsi, un cedere operoso.

Si china in apprensione: ecco la veste disfarsi tutta e caderle ai piedi. Fuori dalla porta rotolava via il folletto, ridevole e saltellante, raccogliendosi in gomitolo: ché in chiesa non può entrare.

Alle volte il folletto ha preso anche la forma di gatto: ed è naturale, per quel carattere ambiguo, sinuoso, che è proprio di questa bestia domestica, la quale pur vivendo da secoli insieme all'uomo non si abbandona mai completamente, e mantiene sempre una riserva di indipendenza e di solitudine.

Questo è capitato d'autunno. Cera il fuoco acceso sotto il camino: incominciava a far freddo. E ritornando dentro casa, la donna si era seduta davanti alla fiamma cercando di accumulare più calore che poteva, per quanto lo consentiva l’ampiezza della sottana.

“Ma guarda che c’è un gatto forestiero!”

Se ne stava queto queto in un angolo del focolare , con gli occhi velati stancamente dalle palpebre. 

Ed ecco all’improvviso un ridere, nel silenzio: gli occhi scintillavano in quella massa assonnata e tranquilla , come se galleggiassero nell’ombra.

“Non ho mai visto un gatto ridere.”

“E neanch’io una donna far fuglèr!“

Poi è scomparso.

E’ difficile tradurre questa espressione: far focolare, cioè formare un golfo a guisa di focolare. Una lezione dunque di compostezza alla povera donna di campagna, da parte del malizioso folletto?

Ma che entrasse nelle case è sempre stato un caso raro.

 

Zampa d’oca 

Verso sera, dopo un breve agitarsi delle foglie dei pioppi, prese a piovere. Era una buona rugiada sul pisello nell’orto, sul granturco oltre l’aia, sulle salvie rosse dei fossi. Pioveva diffuso, un velo nell’aria: e l’odore della polvere saliva su da terra e penetrava nelle case.

Poi la pioggia cessò e fu subito notte. Nuvole basse sui tetti si rincorrevano con improvvisi biancori nella massa inquieta. C’era chi guardava di sull’uscio. 

Ma anche quella sera il moroso venne dalla Bella. Lo diceva la finestra di cucina con gli scuri socchiusi: mandava dalle fessure un lume caldo che faceva pensare al focolare acceso, a una dolce penombra nella stanza.

Tutto il vicinato sapeva che la Bella aveva il moroso: ma nessuno, o meglio nessuna (perché erano le donne che si interessavano della cosa) lo aveva mai visto arrivare per strada. E dire che andavano sul ponte presto, quando ancora di sopra ai boschi indugiava il chiaro dove era caduto il sole e la sera veniva giù sulle facciate delle case e sulle aie così strana che sospendeva alle labbra ogni voglia di parlare. E i vetri delle Finestre avevano per un momento la profondità sonnolenta e smarrita delle acque di fiume che s’attardano nelle lanche: e di là, nelle stanze, anche gli oggetti più consueti e familiari perdevano il loro volto…

Nessuna l’aveva mai visto: eppure erano mesi che veniva, non si sapeva da quale paese. Ed era corsa la voce tra le più giovani che arrivasse improvviso come il vento certe sere, che solo il muoversi delle foglie ultime dei pioppi dice che c’è: e avesse un mantello ampio di velluto che come una vela si apriva e gonfiava alle spalle e lo facesse andare, andare…

Ma queste sono cose che si trovano nelle favole o forse nei sogni: un uomo invece cammina sulla terra, e i segni dove passa li deve pur lasciare. La Bella poi era di campagna e non era il tipo di contentarsi di un’anima vagante. 

Quando venne il mattino, una vicinante più curiosa delle altre andò sul1”aia della Bella: non avevano ancora aperto il pollaio, e tutto intorno, la siepe di acero, i cespi d'erba luccicavano grondanti di goccioline. Ma sulla polvere, chiare decise camminavano delle orme strane, orme di oca: dalla porta si dirigevano verso lo stradello per smarrirsi poi nei campi. Lieta della sua scoperta, la vicina rientrò in casa e lasciò che il giorno si facesse alto, e ricco di voci e di sole. E rideva ogni tanto fra sé, e ogni tanto guardava nell’aia della Bella se mai si fosse alzata.

«Non ti sei accorta che il tuo moroso ha i piedi di oca?››

«I piedi d’oca?›› disse la Bella turbandosi in volto.

«Non ci hai mai badato?››

La Bella faceva no con la testa, come sopra pensiero. Si era fatta smorta.

«Ma quello, cara la mia ragazza, è il diavolo.››

«Il diavolo?››

La Bella corse in casa e pianse. Si scioglieva in lei un groppo di perplessità, una riserva di tremore che aveva sempre cercato di far tacere, spiegandoselo come una titubanza naturale ad affrontare un vivere così nuovo qual è nel matrimonio. Aspettava che passasse quella giornata così fervida fuori e odorosa e con tante voci dalle case e dalle aie che la facevano ancora più segretamente piangere. E nello stesso tempo temeva che venisse la sera – quei languori del fieno in fermento al cadere della rugiada e il sussurro dei grilli e di lontano l’invito delle rane dai cavi, un invito molle e suadente che invadeva l’anima a lasciarsi andare, a chiudere gli occhi… E le rimaneva un senso di vergogna e di amaro da questa esitazione a risolversi, ogni volta.

Così venne la sera: e la Bella con occhi disincantati vide che il suo moroso aveva proprio i piedi d’oca.

Fu una sera lenta a passare, fredda e schiva. La Bella volle tenere aperta la finestra, e se parlava pareva che gridasse, tanto era inquieta.

“Adesso” pensava “bisogna che studi la maniera di dirgli di no, che trovi una scusa. Ma dove vado a pescare una scusa, che è sempre così gentile e premuroso, un vero signore?”

E un’altra sera quando il moroso venne, (in un volto bruno e arguto aveva occhi vivaci, fondi, crepitavano quasi; sì, il suo camminare era un poco dondolante e negligente. Ma chi avrebbe pensato che sotto quel mantello di velluto si nascondesse il diavolo?), la Bella non lo fece neppure sedere. Aveva vinto ogni indecisione. Lo trattenne sulla porta, e pur simulando una certa stanchezza nella voce per non irritare l’ospite potente, disse ferma: «Voglio restar figliola. Ci ho pensato su in questi giorni. Non voglio più continuare a far l’amore››.

«Chi è stato a metterti in testa questa idea?››

«È un mio pensiero. Ho deciso cosi.››

«Ma se dicevi che volevi sposarmi!»

«È proprio un mio pensiero.››

«E allora ricordati» la sua voce aveva lo squillo di una tromba «ricordati che se non sai dirmi quante sere sono che vengo da te, dovrai sposarmi!»

«Ci penserò»

E il giorno dopo la Bella corse dalla vicinante.

«Come devo fare? Sono tanti mesi, e una sera viene, una sera sta a casa.››

E lei disse: «Non preoccuparti. Sai cosa devi fare? Cavati nuda, e poi ti ungi tutta di olio e vai dentro un sacco di penne e ti avvoltoli bene, e cosi vai su una pianta dove passa lui e urli.››

La sera venne giù presto senza farsi aspettare. E quando la Bella sentì stropicciar a terra, fece un verso con la gola come fa íI civettone – un urlo lungo disumano: «Uh – Uh!››

Zampa d”oca si ferma sotto la pianta (tra i rami si agitava una forma nera e ispida) e dice:

«Sono trecento sessanta cinque sere che passo per questo stradello, e mai mi è toccato di vedere un cosi brutto uccello».

E se ne andò con il suo passo sgraziato e lento che non si curava di correggere.

La Bella torna attraverso il prato, corre in casa, serra la porta. Il diavolo arriva.

«Adesso vengo. Aspetta un poco.››

Si lava in una bigoncia con trepidazione, entro il fumare dell’acqua calda, e in furia si veste, si pettina.

«Hai pensato quante sere sono che vengo da te?»

«Sono trecento sessanta cinque sere…»

«Qualcuno te l’ha detto! Non puoi averlo trovato da solai» E nell’ira le dà uno schiaffo bruciante e se ne andò.

La Bella si mise a piangere e a toccarsi la guancia con la mano, ma con un senso nuovo di aperto e di aria e di liberazione. Per qualche tempo le rimase un rossore in volto, come se al dívampare improvviso di una fiammata si fosse trattenuta un attimo vicino al focolare: ma poi scomparve anche quel segno. E di mattina presto la si sentì di nuovo cantare mentre sventolava alla finestra le lenzuola, con una voce che andava e veniva dentro la stanza.

 

 

Il diavolo in canonica 

“Andiamo a rubare?”

“E’ dove?”

“A casa del prete! Ha appena ammazzato il maiale. E i salami sono ancora in cucina.»

Detto fatto: sono sul tetto della canonica. Uno cala giù per la gola del Camino, dentro un cavagno, il socio.

“Lascia venir la soga pian piano!»

I salami stavano la impiccati alle cantinelle, con la tovaglia bianca davanti alla prima fila. C’era qualche brace viva sulla cenere del focolare.

Ed eccolo all’opera: spicca il gentile, lungo e pastoso, buono da friggere in padella, e via via gli altri, più sottili e già sodi.

Poi, con uno scrollone alla corda, avvisa il compagnone. E il cavagno, pieno colmo, su!

Toccava a lui ora. Ma o fu per la furia dell’altro che non vedeva il momento di svignarsela con tutto quel ben di Dio o per i vimini vecchi che non legavano più, ecco che il cavagno si sfonda, maledizione!

Si trovò ad arrabattarsi con mani e piedi in quella gola incrostata di fuliggine, per non filar giù come un sasso e rompersi l’osso del collo.

Del rumore però dovette farne, se prete e serva si svegliarono.

Si alza la donna, si alza il reverendo. Guardano, girano: niente.

Vanno in Cucina: tutto era silenzio. Si sentiva il ronzio di una mosca in quel chiaro fuori d’ora: chissà come viva, di quei giorni.

«Avrete preso paura, signor rettore. Vuole bere un uovo?»

«Ma si!»

Prende l’uovo fresco di giornata, lo buca in cima con la punta del coltello da un lato e dall’altro, e se lo porta alla bocca. Ma nel levar gli occhi al soffitto: «Gesù››, grida, «mancano i salami!»

La donna prese a lagnarsi forte. Guardano insieme, costernati.

«Signor rettore! Che brutta bestia c'è sotto il secchiaio!»

Due occhi spiritati, un ingombro nero, ansimante: pareva un gattone, animale, come si sa, caro al diavolo.

Il prete corre a prendere di là l’aspersorio.

«Te sconzura nel nome di san Pietro»

«Basciami il didietro!”

E risaputo che il demonio per sua natura è uno sboccato, e ci vuole una santa pazienza.

«Ti torno a sconguirare. . .››

«E tu tornalo a basciare!›› 

«Fuori di casa mia!»

«Apri l’uscio che andrò via»

Con le mollette del focolare in mano anche la serva pareva volesse guidare passo passo, verso l’uscita, la ritirata del diavolo nero.

Il prete gira la merletta e spalanca la porta: e quello via nella notte, che rideva come un matto.

«Dio sia lodatol» sospirò la donna.

Il prete si fece con un largo gesto della mano, a conferma, il segno di croce.

 

se le vuoi sentire https://www.radioemiliaromagna.it/wp-content/uploads/2020/03/Racconti_Favole_Padane.mp3